Leopardi non aveva certo in mente il teatro quando, nel 1824, dava alle stampe le “Operette morali”: pensava alle satire greche di Luciano, ai romanzi moderni e filosofici di Sterne e Voltaire. Eppure, non c’è dubbio che l’efficacia performativa dei suoi dialoghi è evidente, soprattutto là dove il contenuto argomentativo incontra il gusto amaro dell’ironia.
Quella stessa ironia che, ancora oggi, appare così stridente in confronto all’armonia delle sue poesie. Quella stessa ironia che, ancora oggi, rende attualissimo il testo di Leopardi per come è scritto, prima ancora che per cosa è scritto: il gusto per la citazione e la parodia, la presa in giro delle manie e delle fissazioni, il contenuto filosofico nascosto nelle banalità quotidiane, la mescolanza di stile elevato e popolare, il piacere della battuta e del gioco di parole. A guardarle una dietro l’altra, queste operette, sembra di assistere a una serie antologica distopica, un Black Mirror dell’Ottocento: in quale altro testo potremmo trovare un folletto e uno gnomo che discutono della scomparsa del genere umano, un mago che evoca un demone, morti imbalsamati che risorgono, uno scienziato che ha scoperto il segreto della vita eterna, la natura che ha preso le forme di una enorme donna distesa sul fianco di una montagna?